Parafrasando il titolo del famoso film con Bud Spencer e Terence Hill (“Dio perdona… Io no!“), l’era digitale che stiamo vivendo porta tra i suoi effetti collaterali anche quelli, non sempre desiderati, di mantenere la memoria di qualunque fatto che sia stato affidato ad Internet. Spesso siamo noi stessi ad alimentare questa conoscenza, attraverso le notizie che riportiamo nei social network o nei blog, altre volte in modo del tutto inconsapevole, p.es. ‘taggati’ da altri.
Non è questo un argomento nuovo, già da tempo si parla di ‘diritto all’oblio’. A tal proposito è giusto citare il pluri-premiato e pluri-tradotto “Delete: The Virtue of Forgetting in the Digital Age” di Viktor Mayer-Schönberger (nell’edizione italiana: “Delete. Il diritto all’oblio nell’era digitale“), che in un’intervista dichiara: “Per millenni dimenticare è stata una qualità umana fondamentale. Da sempre ad essa sono state attribuite funzioni importanti: ci consente di mettere da parte eventi del passato che non sono più importanti per ciò che siamo nel presente; ci consente di generalizzare e astrarre, vedere la foresta piuttosto che solo gli alberi; e come esseri umani ci dà la possibilità di cambiare ed evolvere. Tra l’altro dimenticare è facile per noi in quanto è costruito nei nostri cervelli, è biologico e semplicemente accade. Sfortunatamente nell’era digitale abbiamo a disposizione strumenti digitali che catturano e rendono accessibile per sempre l’informazione e ad un costo molto basso. In sostanza, sebbene gli esseri umani dimentichino ancora, gli strumenti digitali che usiamo quotidianamente non dimenticano più. Il nostro passato resta fissato grazie al potere di Google Search.”
Su questo tema interviene recentemente la Corte di Cassazione, con la sentenza 5525/2012 del 5 aprile 2012, che sicuramente costituirà un riferimento importante per i temi della privacy e dell’informazione. La premessa della vicenda nasce nel 1993, quando una persona -come titolò il Corriere della Sera del periodo- fu arrestata per corruzione, inchiesta poi conclusasi con il proscioglimento della stessa. L’iter della sentenza citata parte proprio dal fatto che ancora recentemente tale notizia era disponibile on line presso l’archivio storico del Corriere della Sera, ed indicizzato quindi dai motori di ricerca: la persona lamentava che l’articolo in questione non recava in sé la notizia del successivo proscioglimento, continuando quindi a riproporre “un alone di discredito sulla persona, vittima di una vera gogna mediatica“.
I precedenti gradi di giudizio hanno dato torto al ricorrente, ma la Cassazione ribalta il risultato, riconoscendo il diritto all'”aggiornamento della notizia“: “emerge la necessità, a salvaguardia dell’attuale identità sociale del soggetto, di garantire al medesimo la contestualizzazione e l’aggiornamento della notizia di cronaca che lo riguarda, e cioè il collegamento della notizia ad altre informazioni successivamente pubblicate concernenti l’evoluzione vicenda“, e ancora “in caso di relativo inserimento in un archivio storico che come nella specie venga memorizzato pure nella rete di internet la notizia non può continuare a risultare isolatamente trattata e non contestualizzata in relazione ai successivi sviluppi della medesima. Ciò al fine di tutelare e rispettare la proiezione sociale dell’identità personale del soggetto”.
“Se vera, esatta ed aggiornata essa esca al momento del relativo trattamento quale notizia di cronaca, e come tale ha costituito oggetto di trattamento, il suo successivo spostamento in altro archivio di diverso scopo (nel caso, archivio storico) con memorizzazione anche nella rete internet deve essere allora realizzato con modalità tali da consentire alla medesima di continuare a mantenere i suindicati caratteri di verità ed esattezza, e conseguentemente di liceità e correttezza, mediante il relativo aggiornamento e contestualizzazione.“
Ovviamente la Corte si è posta il problema della presenza di tale informazione nei motori di ricerca, che ne hanno disponibilità e ne consentono l’indicizzazione, anche della notizia ormai obsoleta. Su questo punto si legge che “Mentre l’archivio si caratterizza per essere ordinato secondo criteri determinati, con informazioni intercorrelate volte ad agevolarne l’accesso e a consentirne la consultazione, la rete internet costituisce in realtà un ente ove le informazioni non sono archiviate ma solo memorizzate. Esso è dotato di una memoria illimitata e senza tempo. La memoria della rete internet non è un archivio, ma un deposito di archivi. Nella rete internet le informazioni non sono in realtà organizzate e strutturate, ma risultano isolate, poste tutte al medesimo livello (“appiattite” ), senza una valutazione del relativo peso, e prive di contestualizzazione, prive di collegamento con altre informazioni pubblicate (come segnalato anche in dottrina, lo stesso pagerank indica quando una pagina è collegata da link, non a quali informazioni essa debba essere correlata, né fornisce alcun dato sulla qualità dell’informazione ).
Si pone allora l’esigenza di attribuzione della fonte dell’informazione ad un soggetto, della relativa affidabilità, della qualità e della correttezza dell’informazione.”
Ispirandosi ai principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza, la soluzione indicata dalla Cassazione è che il titolare dell’organo di informazione si faccia carico di predisporre un sistema idoneo a segnalare, nel corpo o a margine “la sussistenza di un seguito e di uno sviluppo della notizia, e quale esso sia stato (nel caso, dei termini della intervenuta relativa definizione in via giudiziaria), consentendone il rapido ed agevole accesso da parte degli utenti ai fini del relativo adeguato approfondimento”